roma

CROWD di Gisèle Vienne al TEATRO ARGENTINA

Al Teatro Argentina di Roma il 18 e 19 ottobre è andato in scena Crowd, bellissimo spettacolo ideato e coreografato da Gisèle Vienne.

Il palcoscenico si è tramutato in un dancefloor di un rave party in un luogo non luogo, dove i protagonisti si muovono in un rallenty senza fine. In una danza lenta fatta di movimenti dettagliati, le emozioni sono delimitate dai gesti dei giovani partecipanti al party, in un tempo che si dilata inevitabilmente.

lo stage diventa un luogo della mente dove tutto può accadere, lo show è una serie di immagini che scorrono davanti allo sguardo muto dello spettatore. Ci si chiede cosa accadrà dopo l’ennesimo passo a questa folla di giovani dove le narrazioni e i movimenti si compongono e si disfano, mescolandosi con l’alterazione temporale che confonde ogni certezza della visione.
Sebbene sia priva di testo, Crowd lascia ai gesti, al corpo il compito di dire e rappresentare singole storie che una dopo l’altra si fanno folla, Crowd appunto. Luce, suono, musiche fanno il resto dando vita ad un’opera inedita.

La platea che assiste allo show è lì insieme ai 17 interpreti riuniti sul palco, pronta ad essere ipnotizzata gesto dopo gesto e catapultata in un trip ai confini con l’allucinazione.

Alla fine ci si chiede, è successo davvero?

Ideazione, coreografia e scenografia Gisèle Vienne
con l’aiuto di Anja Röttgerkamp e Nuria Guiu Sagarra
luci Patrick Riou
drammaturgia Gisèle Vienne e Denis Cooper
selezioni musicali a cura di Underground Resistance, KTL, Vapour Space
DJ Rolando, Drexciya, The Martian, Choice, Jeff Mills, Peter Rehberg
Manuel Göttsching, Sun Electric e Global Communication
selezione della playlist a cura di Peter Rehberg
responsabile del sound diffusion Stephen O’Malley
performer Lucas Bassereau, Philip Berlin, Marine Chesnais, Sylvain Decloitre, Sophie Demeyer, Vincent Dupuy, Rehin Hollant, Georges Labbat, Theo Livesey, Maya Masse, Katia Petrowick, Linn Ragnarsson, Jonathan Schatz, Henrietta Wallberg in alternanza con Morgane Bonis e Tyra Wigg

Nunzia Castravelli

La Tragedia di Macbeth al Teatro Globe di Roma

Macbeth è la tragedia di Shakespeare in cui un uomo assetato di potere è scisso tra l’ambizione più cieca di impossessarsi del trono e il senso di colpa più nero per aver tradito un Re generoso, amici leali e compagni di battaglia valorosi.

Tutto ha inizio con l’apparazione delle tre sorelle fatali: attraverso una profezia instillano nella mente di Macbeth l’idea di diventare Re. Si tratta di un seme oscuro che inizia a germogliare in un animo sempre più abbietto, incancrenendosi giorno dopo giorno renderà Macbeth sempre più malvagio e senza pietà. La consorte, Lady Macbeth accellera questo processo di putrefazione dell’animo del futuro sovrano ammaliando e persuadendo il marito nel commettere l’omicidio del Re. In un’atmosfera gotica, oscura, resa ancor più nera da un scenografia e costumi che richiamano i film di David Lynch si consuma la tragedia di Macbeth che dopo il regicidio diventa un tiranno spietato. Tra scene di combattimento per il potere tra élite, infanticidi e lotte per l’assegnazione delle cariche pubbliche il regista Daniele di Salvo mette magistralmente in scena il tormento di un animo umano che ormai non può più ripulire le mani insanguinate dagli omicidi commessi ed il dolore di chi è stato vittima del piano di ascesa al potere dei Macbeth.

Il palco del Globe Theatre di Roma diviene luogo in cui si materializzano i peggiori incubi, visioni sanguinose, dove anche Lady Macbeth, incapace di placare l’instabilità del marito, impazzisce a sua volta e soccombe sotto il peso delle sue stesse colpe. Un gotico castello mentale avvolto nella nebbia dal quale non è più possibile uscire sani di mente.

Ormai la Scozia guidata da Macbeth è una terra bagnata dal sangue di tutti coloro sospettati di ordire complotti contro la corona. Ma gli stessi protagonisti periranno sotto il peso delle loro nefandezze, chiedendosi quale sia stato il senso di tutto quel dolore.

Citando le parole del regista:

Macbeth senza Dio.

Macbeth senza gioia.

Macbeth senza prole.

Macbeth senza più un’anima.

Il lato oscuro che nessuno di noi osa confessare.

Macbeth che è in ognuno di noi.

Macbeth: i contagiati dalla morte.

L’opera, assolutamente da vedere, è in scena fino al 25 settembre nel meraviglioso Teatro Globe a Villa Borghese. Tutte le info qui

Nunzia Castravelli

Venere e Adone al Globe Theatre

Venere e Adone è uno dei poemi più lunghi di William Shakespeare: 1194 versi e dedicato a Henry Wriothesly, terzo conte di Southampton. Diversi registri dal comico all’erotico si intrecciano, raccontando una Venere follemente innamorata, passionale, pazza di desiderio per Adone, sfuggente e di grande bellezza che preferisce dedicarsi alla caccia piuttosto che all’amore, sia pur divino.

Come ricorda il regista Daniele Salvo, tra i registi più affermati del teatro italiano, allievo e collaboratore del maestro e regista Luca Ronconi, l’opera è stata composto a Londra nel 1593 nei cupi giorni in cui la peste stava devastando la città, traendo spunto dal decimo libro delle Metamorfosi di Ovidio. Ogni emozione, senza alcun filtro, dalla rabbia alla disperazione catalizza i protagonisti avvolgendoli in un vortice di sensualità e disperazione fino alla morte di Adone.

Le musiche sono state affidate Patrizio Maria D’Artista, oggi direttore artistico della stagione teatrale di prosa del Teatro Maria Caniglia di Sulmona, per il delicato compito di composizione della colonna sonora della sua produzione.

Ricordiamo inoltre i bravissimi attori: Melania Giglio, Riccardo Parravicini e Gianluigi Fogacci. Scene di Fabiana Di Marco, costumi di Daniele Gelsi, direzione tecnica di Stefano Cianfichi, disegno luci di Umile Vainieri, assistente alla regia Alessandro Guerra.

La stagione del Globe theatre di Roma si chiuderà il 10 ottobre, vi sono ancora due spettacoli in calendario da vedere assolutamente.

https://www.globetheatreroma.com/

Nunzia

UN NEMICO DEL POPOLO

Un fantastico Massimo Popolizio, insieme ad un cast di bravissimi attori, torna al Teatro Argentina nelle vesti di un nemico del popolo.

Il testo Ibsiano è questa volta ambientato in una contea americana degli anni 20 e racconta ciò che succede quando una società democratica è guidata da personaggi corrotti e menzonieri. Nella cittadina è stato costruito uno stabilimento termale che rappresenta il riscatto per il territorio, offrendo lavoro agli abitanti di un paese depresso economicamente. Ma sorge un conflitto politico e morale che contrappone  il medico Thomas Stockmann, interpretato dallo stesso Popolizio, direttore dello stabilimento, ed il fratello nonchè il sindaco Peter Stockmann, interpretato da una straordinaria Maria Paiato.

Thomas scopre che le acque termali sono causa di inquinamento, Peter, politicamente insabbiatore, tenta invano di convincerlo che la sua denuncia porrà fine ai sogni collettivi di benessere. Il racconto è popolato dai personaggi – dodici attori al fianco dei protagonisti, in costante equilibrio su note di tenerezza e umanità – che sembrano vivere in apparente armonia, ma la cui esistenza sarà irrimediabilmente “inquinata”, come le acque sulle quali si basa l’economia e la prosperità della cittadina.

Lo spettacolo – che prosegue in lunga tournée nei maggiori teatri italiani tenta di dare vita a un testo di fine Ottocento e far sì che incontri l’entusiasmo degli spettatori di oggi e pensando ai 17.000 spettatori della passata stagione è indubbio che ci sia pientamente riuscito.

http://www.teatrodiroma.net/

N.Castravelli

 

La bisbetica domata di Scaramella

Siamo in Italia alla fine degli Anni Trenta, alla soglia di un radicale cambiamento del rapporto uomo-donna,   in una pensione un uomo di potere organizza una beffa ai danni di un ubriaco facendogli credere di essere un gran signore. Con la complicità di una compagnia di artisti di varietà viene messa in scena la commedia della lotta fra l’astuto Petruccio e la bisbetica Caterina. In un  gioco di equivoci e sotterfugi la farsa che la trama shakespeariana suggerisce, assume i toni del varietà misto a kabarett tedesco, in un clima in cui la finzione sembra toccare punte di verità profonda. Oltre che esilarante rappresentazione di una guerra tra i sessi, il testo si presenta così come un occasione di riflessione sull’esperienza teatrale vissuta come specchio amplificante della vita, luogo di esplorazione dei suoi interrogativi nascosti, e si rivela metafora del rapporto fra l’artista e il potere, della reciproca fascinazione, della difficoltà di mantenere viva e libera la propria voce.

PAOLO DI PAOLO, MONDO PERDUTO

Il mondo perduto di Paolo Di Paolo racconta attraverso 250 meravigliose immagini esposte al Maxxi, l’Italia del dopoguerra: personaggi del cinema, artisti, scrittori ma anche gente comune e bambini ritratti nella propria quotidianità. Fotografo di grande talento ed intuizione, Paolo Di Paolo ha saputo raccontare con delicatezza e obiettività il nostro paese che in quegli anni rinasceva dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale.

Nato nel 1925 a Larino, in Molise Paolo Di Paolo si trasferì a Roma per conseguire la maturità classica e dopo la guerra si iscrisse alla facoltà di Storia e filosofia dell’Università La Sapienza. Frequentò gli ambienti artistici romani e scelse la fotografia come mezzo di espressione artistica, inizando a collaborare nel 1954 con il settimanale Il Mondo, fondato e diretto da Mario Pannunzio. Diventò uno dei principali collaboratori, con il maggior numero di foto pubblicate, 573 immagini.

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Dopo circa 50 anni di oblio, negli anni duemila, per puro caso la figlia Silvia ritrova in cantina un ricchissimo archivio fotografico..tra cui le foto esposte al Maxxi:  Pier Paolo Pasolini al Monte dei Cocci a Roma, Tennesse Williams in spiaggia con il cane, Anna Magnani con il figlio sulla spiaggia del Circeo, Kim Novak che stira in camera al Grand Hotel, Sofia Loren che scherza con Marcello Mastroianni negli studi di Cinecittà. E poi una famiglia per la prima volta di fronte al mare di Rimini e i volti affranti del popolo ai funerali di Palmiro Togliatti.

Insomma, un bellissimo itinerario fotografico tutto da percorrere.

Buon viaggio.

https://www.maxxi.art/di-paolo-paolo/

 

Nunzia Castravelli

 

 

CARROZZERIA ORFEO: LA TRILOGIA

Dopo le feste natalizie, il mese di Gennaio sembra non finire mai. Sempre più freddo e non proprio stimolante. Per fortuna che quest’anno a Roma ci ha pensato il Teatro Piccolo Eliseo ad accedere gli animi con Carrozzeria Orfeo in scena con un tris dei loro spettacoli per la sceneggiatura e regia di Gabriele Di Luca. Ad inaugurare il nuovo anno del Piccolo Eliseo: Cous Cous Klan, seguito da Animali da BarThanks For Vaselina.

Un teatro tragironico dove divertimento e dramma si fondono in un passaggio continuo fra realtà e assurdo, fra sogno e banale. Popolari e profondi, divertenti e cinici, crudi e grezzi ma allo stesso tempo poetici, i personaggi si muovono su quel fragile confine dove, all’improvviso, tutto può inevitabilmente risolversi o precipitare. Stupisce che l’uso continuo di parolacce non sporchi mai il testo, unico caso al mondo in cui la serie continua di vaffanculo non è mai sprecata ma rende giustizia all’intento “tragironico” della scrittura.

Come in Thanks for Vaselina che racconta la storia di esseri umani sconfitti e lasciati in un angolo dal mondo dopo essere stati sfruttati e poi tragicamente derisi.  Genitori disperati e figli senza futuro combattono nell’ unico istante concesso per la propria sopravvivenza, vittime e carnefici della lotta senza tempo per il potere e per l’amore. Di prossima uscita è il film prodotto da Casanova Multimedia e diretto da Gabriele Di Luca che aspettiamo con impazienza.

Da vedere uno a settimana, possibilmente nei primi giorni visto che il weekend è sold out.

Nunzia Castravelli

http://www.teatroeliseo.com/eventi/thanks-for-vaselina/

 

 

 

 

LA FAMIGLIA

La famiglia del Mulino Bianco non esiste, ma esiste quella di FORT APACHE, al Teatro India con la piéce di Valentina Esposito. La regista e drammaturga  ha portato in scena  la storia di una famiglia in cui l’unico mezzo di comunicazione è la violenza e dove antichi rancori sono impossibili da scardinare anche di fronte alla morte.

L’occasione per riunirsi è il matrimonio dell’ultima e unica figlia femmina.                       La cerimonia diventa pretesto per rimettere sul tavolo le incomprensioni tra padri e figli e  luogo dove consumare una vicenda d’amore e d’odio, sospesa tra passato e presente:

«Siamo troppo vicini, ma non vicini abbastanza» dice uno dei protagonisti.

Lo svolgimento della trama svela il vero significato del lavoro della regista che cerca di scandagliare attraverso i suoi personaggi l’animo di uomini che nei lunghi anni di reclusione hanno sofferto per gli affetti lontani, per i figli distanti, per gli amori perduti, e si trovano ora a tentare una ricostruzione emotiva di un rapporto difficile fatto di rivendicazioni e ribellioni, lasciando però un bagliore di speranza nel finale.

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 Fort Apache è un progetto teatrale che coinvolge attori professionisti ed attori ex detenuti o detenuti in misura alternativa (semilibertà, affidamento ai servizi sociali, affidamento in centri di prevenzione alla tossicodipendenza, detenzione domiciliare, etc..), che hanno intrapreso un percorso di professionalizzazione e inserimento nel sistema dello spettacolo teatrale o cinematografico. Fra i quali,  Marcello Fonte – dopo Cannes, miglior interprete agli European Film Awards di Siviglia per Dogman di Matteo Garrone –  Alessandro BernardiniChristian CavorsoChiara CavalieriMatteo CateniViola CentiAlessandro ForcinelliGabriella IndolfiPiero PiccininGiancarlo PorcacchiaFabio RizzutoEdoardo Timmi e Cristina Vagnoli.

Tutti hanno contribuito egregiamente alla riuscita dello spettacolo, profondamente umano e per certi versi catartico.

http://www.teatrodiroma.net/doc/6199/famiglia

http://www.fortapachecinemateatro.com

 

I Grandi Maestri. 100 Anni di fotografia Leica.

Le altre macchine fotografiche che ho provato mi hanno sempre convinto a ritornare a lei… Finché farò questo lavoro, questa è la mia macchina fotografica”.

Scriveva così Henri Cartier-Bresson, della sua cara macchina Leica che con la sua apparizione sul mercato nel 1925 cambiò irreversibilmente il mondo della fotografia.

cartier bresson

Henri Cartier-Bresson, Place de l’Europe. Gare Saint Lazare 1932

Ideata nel 1914 da Oskar Barnack, la Leitz Camera fu la prima macchina fotografica commerciale tascabile con rullino da 35mm (24 × 36 mm) che si caricava all’aperto in presenza di luce. Una vera rivoluzione grazie alla quale i fotografi dell’epoca abbandonarono le ingombranti e scomode fotocamere a lastre a favore di un apparecchio più duttile e compatto. Il primo prototipo di questa fotocamera compatta  fu prodotto però solo nel 1925 grazie all’imprenditore tedesco Ernst Leitz.  Da allora, l’innovazione tecnologica della Ur-Leica segnò la nascita di una fotografia più dinamica e con un’enorme portata creativa, offrendo al fotografo la possibilità di immortalare la realtà attraverso angolazioni del tutto inedite. Grazie a questa nuova macchina duttile e flessibile, portabile ovunque e in qualsiasi situazione, si iniziò a raccontare il mondo in una maniera più immediata, con uno sguardo del tutto diverso rispetto al passato.

Questa storia, lunga più di cento anni, è in esposizione al Complesso del Vittoriano, fino al 18 febbraio, con oltre 350 stampe d’epoca originali di celebri fotografi insieme a documenti storici dall’archivio Leica, oltre a filmati, locandine pubblicitarie vintage, riviste storiche e prime edizioni di libri. I Grandi Maestri. 100 Anni di fotografia Leica è composta da 16 sezioni: dal fotogiornalismo di guerra con le foto Erich Salomon, primo fotogiornalista che portò una Leica negli Stati Uniti e durante la Guerra civile spagnola, all’uso della fotografia come strumento di propaganda. Dalla fotografia umanista con ritratti di gente comune o di star del mondo della moda alla fotografia soggettiva. Si percorrono diversi  generi e  l’uso della Leica nei diversi paesi del mondo come Giappone, Spagna e Portogallo.

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John Bulmer, Donna con passeggino, per Sunday Times Magazine, Liverpool, 1965

Nonostante l’allestimento renda un pò difficile la fruibilità della mostra, “I Grandi Maestri. 100 Anni di fotografia Leica”  propone comunque delle immagini meravigliose dei più grandi interpreti internazionali della storia della fotografia: Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, Sebastião Salgado, Elliott Erwitt e Gianni Berengo Gardin, fino al colore di William Eggleston, Fred Herzog e Joel Meyerowitz. Accanto alle immagini di Gianni Berengo Gardin vi è uno spazio dedicato anche alle fotografie di altri interpreti italiani d’eccezione come Piergiorgio Branzi, Paolo Pellegrin, Valerio Bispuri e Lorenzo Castore.

Nunzia Castravelli

http://www.ilvittoriano.com/mostra-leica-roma.html

 

The Japanese House @MAXXI

Nella lingua giapponese la parola casa si dice ie oppure, riferendosi alla propria, uchi.

Lo stesso ideogramma viene usato nella parola kazoku che significa famiglia. La casa in Giappone è quindi uno spazio domestico per la famiglia che si è evoluto nel corso dei secoli adattandosi alle necessità dei differenti momenti storici. Tale evoluzione  viene documentata attraverso il lavoro di 3 generazioni di architetti e designer, nella mostra      The Japanese House; co-prodotta assieme al Japan Foundation, Barbican Centre e Museum of Modern Art Tokyo, allestita dallo studio giapponese Atelier Bow Wow, al MAXXI fino al 26 febbraio.

Partendo dalla prima sala  una poesia di Kamo no Chomei introduce al concetto di transizione e continua trasformazione  insita nella cultura giapponese. L’impermanenza di tutte le cose riguarda anche l’architettura, in un paese altamente sismico e da sempre interessato da catastrofi naturali, l’impermanenza diventa parola chiave per descrivere la filosofia che si cela dietro l’architettura giapponese.

Sebbene la corrente del fiume non si arresti mai,  lo scorrere dell’acqua, istante dopo istante, non è mai uguale a se stesso. Laddove la corrente si accumula, in superfice si formano delle bolle, che scoppiano e scompaiono, mentre ne affiorano delle altre, nessuna delle quali è destinata  a durare. In questo mondo le persone e le loro dimore sono esattamente cosi in continuo cambiamento”.

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L’esposizione vede circa 60 autori e 14 aree tematiche, una sequenza di frammenti, foto e plastici che riassumono i caratteri essenziali della casa giapponese muovendosi in una rigorosa tensione estetica tra modernità  e legami con il passato a partire dalla Seconda Guerra Mondiale.

In quel periodo, per fronteggiare la mancanza di alloggi in Giappone gli architetti trovarono una soluzione nei prefabbricati che si diffusero negli anni 60 e 70 con progetti come Nakagin Capsule Tower Building. Le capsule furono costruite in cemento armato un materiale introdotto nel Sol Levante all’inzio del 900, adottato soprattutto per la resistenza ai terremoti. Invece in altre opere architettoniche come  Reinanzaka House a Tokyo, nel cemento vennero trasferite le qualità organiche del legno.

Nel periodo della crescita economica vennero poi sostituite le machiya,  abitazioni urbane in legno concepite in lotti di terreno molto stretti che combinavano spazi interni ed esterni con case dotate di giardini. In anni recenti con opere come Sumiyoshi house in Nipponbashi si è ritornati alle machiya sviluppatesi durante il periodo Tokugawa.

Nella mostra vi sono anche le cosidette case “sensoriali” che enfatizzano l’astrazione rispetto al contesto creando una realtà alternativa. Esemplificativa è l’House in White di Shinohara. Altre opere, come la Small Bathhouse in Izu, sono emblematiche del concetto di leggerezza, una qualità estetica insita nella cultura nipponica e forse maggior contributo del Giappone all’architettura mondiale. In questo caso  leggerezza materiale e estetica funzionale convertono in un’unica struttura.

Per altre info clicca qui –> MAXXI

Nunzia Castravelli