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L’OCCHIO DI GIANNI BERENGO GARDIN

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Il viaggio fotografico di Berengo Gardin in mostra al MAxxi, fino al 22 settembre, attraversa l’Italia in ben 200 foto. Inizia a Venezia, città natia del padre e del nonno, dove nei circoli fotografici come “La Gondola” Berengo ha mosso, ormai più di 70 anni fa, i primi passi. Venezia è un luogo di continuo ritorno, ritratta nei primi poetici scatti degli anni 50, nella contestazione alla Biennale del 1968 fino al celebre progetto dedicato alle Grandi Navi del 2013.

L’esposizione prosegue raccontando la Milano dell’industria, delle lotte operaie, degli intellettuali, i paesaggi delle risaie, attraversa l’Italia fino in Sicilia. Ancora, ritratti, scatti inediti dell’epoca che mostrano per la prima volta le condizioni all’interno degli ospedali psichiatrici in tutta Italia, foto che documentano la cultura Rom nei momenti di feste e cerimonie; i tanti piccoli borghi rurali e le grandi città; i luoghi della vita quotidiana; L’Aquila colpita dal terremoto; i cantieri (tra cui anche quello del MAXXI, fotografato nel 2007); i molti incontri dell’autore con figure chiave della cultura contemporanea: Dino Buzzati, Peggy Guggenheim, Luigi Nono, Mario Soldati.

La fotografia di Gardin è una fotografia “vera” che racconta persone, luoghi, paesaggi, testimone anche di lotte sociali e civili. Attraverso il suo obiettivo in 70 anni di carriera Gardin riesce a regalarci uno scorcio del paese reale, uno sguardo su un’Italia che non esiste più ma è sempre presente nella memoria della sua testimonianza fotografica. La sua fotografia non è mai manipolata, perchè come egli ci dice, è questa la differenza tra il fotografo e chi fa le foto. Il primo pensa, imposta la macchina e solo dopo scatta. Ha il controllo sulla macchina e non viceversa.

In un mondo ormai digitalizzato, dove la macchina si imposta automanticamente confessa: “Non sono credente, ma credo fermamente del dio pellicola“.

Nunzia C.

AT HOME @MAXXI

Com’è cambiato il concetto di casa e dell’abitare la casa dal dopoguerra ad oggi? Come si è evoluto lo spazio domestico nel Novecento?

Attraverso i progetti architettonici dei grandi maestri italiani del nostro tempo e delle figure emergenti dell’architettura contemporanea internazionale, il Maxxi ci offre un’esibizione che da molteplici risposte alle domande sopra esposte.

Il percorso di At Home inizia con Villa Malaparte a picco sul mare di Capri, passando  per il rifugio sulle Dolomiti dei giovani Demogo. I Collegi universitari di Urbino di Giancarlo De Carlo e il progetto Sugar Hill di David Adjaye, ad Harlem. La Casa Baldi di Paolo Portoghesi a Roma e la casa ”spaziale” di Zaha Hadid in Russia. E ancora il Bosco Verticale di Stefano Boeri a Milano e la Moryama House di Tokyo.

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 Una sequenza di stanze, dove l’allestimento prevede un accoppiamento di due diverse testimonianze architettoniche, come la “bellezza di impatto che non cerca la mimesi” de Casa Malaparte di Adalberto Libera (1938-40)  accomunata al nuovo bivacco fratelli Fanton di studio Demogo (2016 – in cantiere). Un confronto che oltre ad accomunare, rivela allo stesso tempo un radicale cambiamento culturale nel modo con cui i due edifici si relazionano al luogo in cui si ergono, come sottolineano gli stessi curatori: il primo “innestato” saldamente sulla roccia, il secondo “appoggiato con leggerezza”.

Dopo un passaggio nella Casa Moriyama di Sanaa (2002-05) caratterizzatata dalla frammentazione di una villa con giardino in più volumi realizzando unità abitative potenzialmente autonome, la mostra si conclude significativamente con il progetto del Corviale, edificio-città che chiude la fase moderna di ricerca sull’abitazione e si offre oggi alla sperimentazione di strategie di trasformazione dei grandi edifici di edilizia residenziale pubblica attraverso i progetti di riqualificazione di Laura Peretti e Guendalina Salimei.

Tutte le info qui

 

 

Nunzia Castravelli

 

PAOLO DI PAOLO, MONDO PERDUTO

Il mondo perduto di Paolo Di Paolo racconta attraverso 250 meravigliose immagini esposte al Maxxi, l’Italia del dopoguerra: personaggi del cinema, artisti, scrittori ma anche gente comune e bambini ritratti nella propria quotidianità. Fotografo di grande talento ed intuizione, Paolo Di Paolo ha saputo raccontare con delicatezza e obiettività il nostro paese che in quegli anni rinasceva dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale.

Nato nel 1925 a Larino, in Molise Paolo Di Paolo si trasferì a Roma per conseguire la maturità classica e dopo la guerra si iscrisse alla facoltà di Storia e filosofia dell’Università La Sapienza. Frequentò gli ambienti artistici romani e scelse la fotografia come mezzo di espressione artistica, inizando a collaborare nel 1954 con il settimanale Il Mondo, fondato e diretto da Mario Pannunzio. Diventò uno dei principali collaboratori, con il maggior numero di foto pubblicate, 573 immagini.

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Dopo circa 50 anni di oblio, negli anni duemila, per puro caso la figlia Silvia ritrova in cantina un ricchissimo archivio fotografico..tra cui le foto esposte al Maxxi:  Pier Paolo Pasolini al Monte dei Cocci a Roma, Tennesse Williams in spiaggia con il cane, Anna Magnani con il figlio sulla spiaggia del Circeo, Kim Novak che stira in camera al Grand Hotel, Sofia Loren che scherza con Marcello Mastroianni negli studi di Cinecittà. E poi una famiglia per la prima volta di fronte al mare di Rimini e i volti affranti del popolo ai funerali di Palmiro Togliatti.

Insomma, un bellissimo itinerario fotografico tutto da percorrere.

Buon viaggio.

https://www.maxxi.art/di-paolo-paolo/

 

Nunzia Castravelli

 

 

The Japanese House @MAXXI

Nella lingua giapponese la parola casa si dice ie oppure, riferendosi alla propria, uchi.

Lo stesso ideogramma viene usato nella parola kazoku che significa famiglia. La casa in Giappone è quindi uno spazio domestico per la famiglia che si è evoluto nel corso dei secoli adattandosi alle necessità dei differenti momenti storici. Tale evoluzione  viene documentata attraverso il lavoro di 3 generazioni di architetti e designer, nella mostra      The Japanese House; co-prodotta assieme al Japan Foundation, Barbican Centre e Museum of Modern Art Tokyo, allestita dallo studio giapponese Atelier Bow Wow, al MAXXI fino al 26 febbraio.

Partendo dalla prima sala  una poesia di Kamo no Chomei introduce al concetto di transizione e continua trasformazione  insita nella cultura giapponese. L’impermanenza di tutte le cose riguarda anche l’architettura, in un paese altamente sismico e da sempre interessato da catastrofi naturali, l’impermanenza diventa parola chiave per descrivere la filosofia che si cela dietro l’architettura giapponese.

Sebbene la corrente del fiume non si arresti mai,  lo scorrere dell’acqua, istante dopo istante, non è mai uguale a se stesso. Laddove la corrente si accumula, in superfice si formano delle bolle, che scoppiano e scompaiono, mentre ne affiorano delle altre, nessuna delle quali è destinata  a durare. In questo mondo le persone e le loro dimore sono esattamente cosi in continuo cambiamento”.

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L’esposizione vede circa 60 autori e 14 aree tematiche, una sequenza di frammenti, foto e plastici che riassumono i caratteri essenziali della casa giapponese muovendosi in una rigorosa tensione estetica tra modernità  e legami con il passato a partire dalla Seconda Guerra Mondiale.

In quel periodo, per fronteggiare la mancanza di alloggi in Giappone gli architetti trovarono una soluzione nei prefabbricati che si diffusero negli anni 60 e 70 con progetti come Nakagin Capsule Tower Building. Le capsule furono costruite in cemento armato un materiale introdotto nel Sol Levante all’inzio del 900, adottato soprattutto per la resistenza ai terremoti. Invece in altre opere architettoniche come  Reinanzaka House a Tokyo, nel cemento vennero trasferite le qualità organiche del legno.

Nel periodo della crescita economica vennero poi sostituite le machiya,  abitazioni urbane in legno concepite in lotti di terreno molto stretti che combinavano spazi interni ed esterni con case dotate di giardini. In anni recenti con opere come Sumiyoshi house in Nipponbashi si è ritornati alle machiya sviluppatesi durante il periodo Tokugawa.

Nella mostra vi sono anche le cosidette case “sensoriali” che enfatizzano l’astrazione rispetto al contesto creando una realtà alternativa. Esemplificativa è l’House in White di Shinohara. Altre opere, come la Small Bathhouse in Izu, sono emblematiche del concetto di leggerezza, una qualità estetica insita nella cultura nipponica e forse maggior contributo del Giappone all’architettura mondiale. In questo caso  leggerezza materiale e estetica funzionale convertono in un’unica struttura.

Per altre info clicca qui –> MAXXI

Nunzia Castravelli