architettura

AT HOME @MAXXI

Com’è cambiato il concetto di casa e dell’abitare la casa dal dopoguerra ad oggi? Come si è evoluto lo spazio domestico nel Novecento?

Attraverso i progetti architettonici dei grandi maestri italiani del nostro tempo e delle figure emergenti dell’architettura contemporanea internazionale, il Maxxi ci offre un’esibizione che da molteplici risposte alle domande sopra esposte.

Il percorso di At Home inizia con Villa Malaparte a picco sul mare di Capri, passando  per il rifugio sulle Dolomiti dei giovani Demogo. I Collegi universitari di Urbino di Giancarlo De Carlo e il progetto Sugar Hill di David Adjaye, ad Harlem. La Casa Baldi di Paolo Portoghesi a Roma e la casa ”spaziale” di Zaha Hadid in Russia. E ancora il Bosco Verticale di Stefano Boeri a Milano e la Moryama House di Tokyo.

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 Una sequenza di stanze, dove l’allestimento prevede un accoppiamento di due diverse testimonianze architettoniche, come la “bellezza di impatto che non cerca la mimesi” de Casa Malaparte di Adalberto Libera (1938-40)  accomunata al nuovo bivacco fratelli Fanton di studio Demogo (2016 – in cantiere). Un confronto che oltre ad accomunare, rivela allo stesso tempo un radicale cambiamento culturale nel modo con cui i due edifici si relazionano al luogo in cui si ergono, come sottolineano gli stessi curatori: il primo “innestato” saldamente sulla roccia, il secondo “appoggiato con leggerezza”.

Dopo un passaggio nella Casa Moriyama di Sanaa (2002-05) caratterizzatata dalla frammentazione di una villa con giardino in più volumi realizzando unità abitative potenzialmente autonome, la mostra si conclude significativamente con il progetto del Corviale, edificio-città che chiude la fase moderna di ricerca sull’abitazione e si offre oggi alla sperimentazione di strategie di trasformazione dei grandi edifici di edilizia residenziale pubblica attraverso i progetti di riqualificazione di Laura Peretti e Guendalina Salimei.

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Nunzia Castravelli

 

The Japanese House @MAXXI

Nella lingua giapponese la parola casa si dice ie oppure, riferendosi alla propria, uchi.

Lo stesso ideogramma viene usato nella parola kazoku che significa famiglia. La casa in Giappone è quindi uno spazio domestico per la famiglia che si è evoluto nel corso dei secoli adattandosi alle necessità dei differenti momenti storici. Tale evoluzione  viene documentata attraverso il lavoro di 3 generazioni di architetti e designer, nella mostra      The Japanese House; co-prodotta assieme al Japan Foundation, Barbican Centre e Museum of Modern Art Tokyo, allestita dallo studio giapponese Atelier Bow Wow, al MAXXI fino al 26 febbraio.

Partendo dalla prima sala  una poesia di Kamo no Chomei introduce al concetto di transizione e continua trasformazione  insita nella cultura giapponese. L’impermanenza di tutte le cose riguarda anche l’architettura, in un paese altamente sismico e da sempre interessato da catastrofi naturali, l’impermanenza diventa parola chiave per descrivere la filosofia che si cela dietro l’architettura giapponese.

Sebbene la corrente del fiume non si arresti mai,  lo scorrere dell’acqua, istante dopo istante, non è mai uguale a se stesso. Laddove la corrente si accumula, in superfice si formano delle bolle, che scoppiano e scompaiono, mentre ne affiorano delle altre, nessuna delle quali è destinata  a durare. In questo mondo le persone e le loro dimore sono esattamente cosi in continuo cambiamento”.

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L’esposizione vede circa 60 autori e 14 aree tematiche, una sequenza di frammenti, foto e plastici che riassumono i caratteri essenziali della casa giapponese muovendosi in una rigorosa tensione estetica tra modernità  e legami con il passato a partire dalla Seconda Guerra Mondiale.

In quel periodo, per fronteggiare la mancanza di alloggi in Giappone gli architetti trovarono una soluzione nei prefabbricati che si diffusero negli anni 60 e 70 con progetti come Nakagin Capsule Tower Building. Le capsule furono costruite in cemento armato un materiale introdotto nel Sol Levante all’inzio del 900, adottato soprattutto per la resistenza ai terremoti. Invece in altre opere architettoniche come  Reinanzaka House a Tokyo, nel cemento vennero trasferite le qualità organiche del legno.

Nel periodo della crescita economica vennero poi sostituite le machiya,  abitazioni urbane in legno concepite in lotti di terreno molto stretti che combinavano spazi interni ed esterni con case dotate di giardini. In anni recenti con opere come Sumiyoshi house in Nipponbashi si è ritornati alle machiya sviluppatesi durante il periodo Tokugawa.

Nella mostra vi sono anche le cosidette case “sensoriali” che enfatizzano l’astrazione rispetto al contesto creando una realtà alternativa. Esemplificativa è l’House in White di Shinohara. Altre opere, come la Small Bathhouse in Izu, sono emblematiche del concetto di leggerezza, una qualità estetica insita nella cultura nipponica e forse maggior contributo del Giappone all’architettura mondiale. In questo caso  leggerezza materiale e estetica funzionale convertono in un’unica struttura.

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Nunzia Castravelli