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ASPETTANDO GODOT AL TEATRO VASCELLO

Se avessi saputo chi è Godot l’avrei scritto nel copione”

Rispose così Beckett a chi gli chiese chi fosse Godot. Protagonista mai visto di uno dei testi più rappresentativi del teatro dell’assurdo. Una tragicommedia costruita intorno alla condizione dell’attesa che ha spinto i critici di tutto il mondo a non fermarsi a questa sola interpretazione ma a cercare in Godot un simbolismo che addirittura ha scomodato Dio. Altre interpretazioni lo vedono come personificazione del destino, della morte o della fortuna.

Ma facciamo un passo indietro, alla trama: nel primo atto due uomini probabilmente vagabondi, Estragone e Vladimiro, sono in attesa di un certo Godot che ha dato loro un appuntamento. Il luogo e l’orario dell’appuntamento sono vaghi. Mentre attendono passa sulla stessa strada Pozzo, un proprietario terriero, e il suo servitore, Lucky, tenuto al guinzaglio dal primo.

Pozzo si ferma a parlare con Vladimiro ed Estragone finchè Lucky inizia un delirante monologo erudito culminante in una rovinosa zuffa tra i personaggi. Nel frattempo Godot ancora non si è fatto vivo. Arriva però un giovane messaggero di Godot, il quale annuncia che il signor Godot si scusa, ma che non può venire. Arriverà però sicuramente il giorno dopo. Il primo atto finisce con la considerazione di Vladimiro ed Estregone di suicidarsi, ma alla fine rinunciano. Poi pensano di andarsene, ma restano. Nel secondo atto accadono esattamente le stesse cose del primo atto: l’attesa dei due, il passaggio di Pozzo e Lucky, l’arrivo del messaggero che informa Vladimiro ed Estragone che Godot non sarebbe arrivato. I due rifanno quindi le stesse considerazioni sulla morte e sull’idea di mollare tutto. Come scrisse Vivian Mercier in un articolo apparso sull’Irish Times nel 1956 “Aspettando Godot è una commedia in cui non accade nulla, per due volte

In realtà, la grandiosità di Godot sta proprio nella sua astrattezza, o meglio nella sua totale apertura alle interpretazioni e lo spettacolo in scena al Teatro Vascello per la regia di Theodoros Terzopoulos ha ben reso questa apertura avvalendosi di straordinari attori come Enzo Vetrano, Stefano Randisi, Paolo Musio, i promettenti giovani Giulio Germano Cervi, Rocco Ancarola.

Grazie a loro, l’attesa dei personaggi che interpretano diventa attesa dello spettatore stesso, che impaziente soffre con loro, si interroga con loro, diventando parte di quel paesaggio dai contorni del nulla, di quella zona grigia del palco dove i valori umani vengono annientati. In un luogo non luogo, in un tempo non tempo, dove Godot non si rivela mai, così come il significato di ciò che si vuole dire non è mai chiaro, seppur esplicitato con le parole. Parole apparentemente prive di senso, come l’attesa di qualcuno che non arriverà.

Da vedere.

Nunzia Castravelli

CROWD di Gisèle Vienne al TEATRO ARGENTINA

Al Teatro Argentina di Roma il 18 e 19 ottobre è andato in scena Crowd, bellissimo spettacolo ideato e coreografato da Gisèle Vienne.

Il palcoscenico si è tramutato in un dancefloor di un rave party in un luogo non luogo, dove i protagonisti si muovono in un rallenty senza fine. In una danza lenta fatta di movimenti dettagliati, le emozioni sono delimitate dai gesti dei giovani partecipanti al party, in un tempo che si dilata inevitabilmente.

lo stage diventa un luogo della mente dove tutto può accadere, lo show è una serie di immagini che scorrono davanti allo sguardo muto dello spettatore. Ci si chiede cosa accadrà dopo l’ennesimo passo a questa folla di giovani dove le narrazioni e i movimenti si compongono e si disfano, mescolandosi con l’alterazione temporale che confonde ogni certezza della visione.
Sebbene sia priva di testo, Crowd lascia ai gesti, al corpo il compito di dire e rappresentare singole storie che una dopo l’altra si fanno folla, Crowd appunto. Luce, suono, musiche fanno il resto dando vita ad un’opera inedita.

La platea che assiste allo show è lì insieme ai 17 interpreti riuniti sul palco, pronta ad essere ipnotizzata gesto dopo gesto e catapultata in un trip ai confini con l’allucinazione.

Alla fine ci si chiede, è successo davvero?

Ideazione, coreografia e scenografia Gisèle Vienne
con l’aiuto di Anja Röttgerkamp e Nuria Guiu Sagarra
luci Patrick Riou
drammaturgia Gisèle Vienne e Denis Cooper
selezioni musicali a cura di Underground Resistance, KTL, Vapour Space
DJ Rolando, Drexciya, The Martian, Choice, Jeff Mills, Peter Rehberg
Manuel Göttsching, Sun Electric e Global Communication
selezione della playlist a cura di Peter Rehberg
responsabile del sound diffusion Stephen O’Malley
performer Lucas Bassereau, Philip Berlin, Marine Chesnais, Sylvain Decloitre, Sophie Demeyer, Vincent Dupuy, Rehin Hollant, Georges Labbat, Theo Livesey, Maya Masse, Katia Petrowick, Linn Ragnarsson, Jonathan Schatz, Henrietta Wallberg in alternanza con Morgane Bonis e Tyra Wigg

Nunzia Castravelli

La Tragedia di Macbeth al Teatro Globe di Roma

Macbeth è la tragedia di Shakespeare in cui un uomo assetato di potere è scisso tra l’ambizione più cieca di impossessarsi del trono e il senso di colpa più nero per aver tradito un Re generoso, amici leali e compagni di battaglia valorosi.

Tutto ha inizio con l’apparazione delle tre sorelle fatali: attraverso una profezia instillano nella mente di Macbeth l’idea di diventare Re. Si tratta di un seme oscuro che inizia a germogliare in un animo sempre più abbietto, incancrenendosi giorno dopo giorno renderà Macbeth sempre più malvagio e senza pietà. La consorte, Lady Macbeth accellera questo processo di putrefazione dell’animo del futuro sovrano ammaliando e persuadendo il marito nel commettere l’omicidio del Re. In un’atmosfera gotica, oscura, resa ancor più nera da un scenografia e costumi che richiamano i film di David Lynch si consuma la tragedia di Macbeth che dopo il regicidio diventa un tiranno spietato. Tra scene di combattimento per il potere tra élite, infanticidi e lotte per l’assegnazione delle cariche pubbliche il regista Daniele di Salvo mette magistralmente in scena il tormento di un animo umano che ormai non può più ripulire le mani insanguinate dagli omicidi commessi ed il dolore di chi è stato vittima del piano di ascesa al potere dei Macbeth.

Il palco del Globe Theatre di Roma diviene luogo in cui si materializzano i peggiori incubi, visioni sanguinose, dove anche Lady Macbeth, incapace di placare l’instabilità del marito, impazzisce a sua volta e soccombe sotto il peso delle sue stesse colpe. Un gotico castello mentale avvolto nella nebbia dal quale non è più possibile uscire sani di mente.

Ormai la Scozia guidata da Macbeth è una terra bagnata dal sangue di tutti coloro sospettati di ordire complotti contro la corona. Ma gli stessi protagonisti periranno sotto il peso delle loro nefandezze, chiedendosi quale sia stato il senso di tutto quel dolore.

Citando le parole del regista:

Macbeth senza Dio.

Macbeth senza gioia.

Macbeth senza prole.

Macbeth senza più un’anima.

Il lato oscuro che nessuno di noi osa confessare.

Macbeth che è in ognuno di noi.

Macbeth: i contagiati dalla morte.

L’opera, assolutamente da vedere, è in scena fino al 25 settembre nel meraviglioso Teatro Globe a Villa Borghese. Tutte le info qui

Nunzia Castravelli

L’OCCHIO DI GIANNI BERENGO GARDIN

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Il viaggio fotografico di Berengo Gardin in mostra al MAxxi, fino al 22 settembre, attraversa l’Italia in ben 200 foto. Inizia a Venezia, città natia del padre e del nonno, dove nei circoli fotografici come “La Gondola” Berengo ha mosso, ormai più di 70 anni fa, i primi passi. Venezia è un luogo di continuo ritorno, ritratta nei primi poetici scatti degli anni 50, nella contestazione alla Biennale del 1968 fino al celebre progetto dedicato alle Grandi Navi del 2013.

L’esposizione prosegue raccontando la Milano dell’industria, delle lotte operaie, degli intellettuali, i paesaggi delle risaie, attraversa l’Italia fino in Sicilia. Ancora, ritratti, scatti inediti dell’epoca che mostrano per la prima volta le condizioni all’interno degli ospedali psichiatrici in tutta Italia, foto che documentano la cultura Rom nei momenti di feste e cerimonie; i tanti piccoli borghi rurali e le grandi città; i luoghi della vita quotidiana; L’Aquila colpita dal terremoto; i cantieri (tra cui anche quello del MAXXI, fotografato nel 2007); i molti incontri dell’autore con figure chiave della cultura contemporanea: Dino Buzzati, Peggy Guggenheim, Luigi Nono, Mario Soldati.

La fotografia di Gardin è una fotografia “vera” che racconta persone, luoghi, paesaggi, testimone anche di lotte sociali e civili. Attraverso il suo obiettivo in 70 anni di carriera Gardin riesce a regalarci uno scorcio del paese reale, uno sguardo su un’Italia che non esiste più ma è sempre presente nella memoria della sua testimonianza fotografica. La sua fotografia non è mai manipolata, perchè come egli ci dice, è questa la differenza tra il fotografo e chi fa le foto. Il primo pensa, imposta la macchina e solo dopo scatta. Ha il controllo sulla macchina e non viceversa.

In un mondo ormai digitalizzato, dove la macchina si imposta automanticamente confessa: “Non sono credente, ma credo fermamente del dio pellicola“.

Nunzia C.

LONDON CALLING – British Contemporary Art Now

Riguardo all’arte, bisogna riconoscere alle Fondazioni presiedute dal Prof. Avv. Emmanuele F. M. Emanuele il merito di aver portato ed ospitato a Roma artisti ed opere mai viste in Italia. Pensiamo alle mostre dedicate ad Hiroshige, Niki de Saint Phalle, Nevelson, Hopper, Norman Rockwell, Georgia O’Keeffe. La necessità è comunicare che c’è sempre un nuovo artista da scoprire e che (opinione personale) le mostre sugli impressionisti hanno già dato. Aprirsi al nuovo, ad un’artista mai sentito prima, ad una corrente artistica mai esplorata, significa darsi la possibilità di accrescere se stessi ed il proprio mondo interiore fatto di esperienze di vita che necessitano anche dell’arte per espandersi. Il pubblico italiano ha una grande possibilità: conoscere qualcosa di non ancora visto e se Londra chiama, Roma non può non rispondere.

La Fondazione Terzo Pilastro con Poema ed il supporto organizzativo di Comediarting e Arthemisia, ci regala questa volta una bellissima mostra sull’arte contemporanea Britannica. Ben 50 anni di arte londinese, per la prima volta in Italia, in esposizione a Palazzo Cipolla fino al 17 luglio.

Il percorso espositivo si apre con Magenta Apple Mix 2 di Anish Kapoor. L’opera di due grandi dischi rossi ha l’intento di evocare le connotazioni più cupe della natura mortale dell’uomo. La scelta del colore rosso non è casuale, richiamo alla passione, al sangue e alla vita. Seguono le opere degli altri artisti britannici di fama internazionale da David Hockney a Jake e Dinos Chapman a Damien Hirst e Idris Khan che uno alla volta raccontano l’arte britannica tra il 1937 e il 1978.

Tutti gli artisti esposti hanno messo le loro radici creative in una Londra di inizio anni Sessanta, in piena trasformazione economica e sociale e che si preparava a diventare una delle capitali indiscusse dell’arte contemporanea. A quei tempi la scena artistica londinese diede vita ad una vera e propria rivoluzione, attraverso movimenti come quello della New British Sculpture e degli Young British Artists (YBA). Ed è proprio Londra il massimo comune denominatore delle opere esposte che, pur essendo frutto di artisti di generazioni diverse, hanno in comune di essere tutte “figlie” di Londoners.

Le opere sono state selezionate dai curatori Maya Binkin e Javier Molins in collaborazione con gli artisti stessi. Ideata dalle collezioni/studi personali degli artisti, la mostra è supportata da gallerie e collezioni internazionali come Gagosian Gallery, Goodman Gallery, Galerie Lelong, Lisson Gallery, Modern Forms, Victoria Miró Gallery, Galerie Thaddaeus Ropac, Sean Kelly Gallery, New York, Tim Taylor Gallery, London, Tucci Russo Studio per l’Arte Contemporanea.

Keep Calm & Love Art not War

Nunzia Castravelli

IL RITORNO DI CARROZZERIA ORFEO

Finalmente a Roma ritorna Carrozzeria Orfeo con Miracoli Metropolitani, new born dopo Thanks for Vaselina, Animali da Bar e Cous Cous Klan

La vicenda che fa da sfondo allo spettacolo, scritto da Gabriele Di Luca e diretto dallo stesso Di Luca, Massimiliano Setti, Alessandro Tedeschi, è accaduta davvero. Nel settembre 2017 le fogne di Whitechapel a Londra sono esplose a causa di un intasamento di 130 tonnellate di grasso mischiato a vari oggetti non biodegradabili: dai preservativi agli assorbenti. 

Su questo background maleodorante, in una vecchia autorimessa adattata a cucina si muovono sette personaggi, tutti estremamente nevrotici: una donna manager ossessionata dal riscatto sociale e dai social ed il suo compagno ex chef stellato costretto a cucinare cibi take away; il loro figlio con disturbi mentali, una donna africana senza permesso di soggiorno, un carcerato in semilibertà aspirante attore obbligato a fare lavori socialmente utili; una ex brigatista (madre del cuoco) con ancora la passione per gli attentati ed un aspirante suicida.

Continua la riflessione, questa volta un pò più politica di Di Luca, sulla società contemporanea. Viene ricreato, come lui stesso scrive, un mondo stupido dove si ride tanto, ma dove non si sta ridendo affatto. Dove tutti i personaggi sono accomunati dall’essere dei perdenti alla ricerca delle proprie verità nel tentativo di soddisfare i propri desideri più profondi.

Miracoli Metropolitani racconta di una società che sta per essere sepolta dai suoi stessi escrementi, metafora dell’angoscia esistenziale, di pensieri e azioni malate, di un capitalismo culturale orribile, di un’umanità razzista e depressa incapace di comunicare se non attraverso il turpiloquio o che finge e si vende sui social. Una società che è letteralmente nella merda, angosciata.

Alla fine, si esce dal Teatro dopo aver riso molto, ma anche riflettuto, divertiti ma un pò angosciati, un’esperienza di momenti comici alternati a momenti estremamente drammatici.

Insomma la bipolarità è garantita, grazie anche ai fantastici attori.

NunziaChan

Ara Guler, l’occhio di Istanbul a Roma

“Non faccio fotografie in condizioni di luce normale. O all’alba, al tramonto o al mattino presto. Inoltre voglio spiegare qualcosa in ogni frame. Ogni immagine deve avere un messaggio.” 

Il maestro Ara Güler ha definito le sue foto un pò romantiche proprio come lui.  Un uomo dalla profonda sensibilità artistica diventato uno dei maggiori fotografi turchi riconosciuto a livello internazionale.    Nominato tra i sette fotografi migliori al mondo dal British Journal of Photography Yearbook e insignito del prestigioso titolo di “Master of Leica”, nel corso della sua carriera è riuscito a raccontare Istanbul diventandone  “l’occhio”.  Era chiamato “The Eye of Istanbul”.   Il suo lavoro fotografico in bianco e nero è fortemente malinconico e rivela il profondo legame con la città in cui è cresciuto. Come lui stesso asserì, l’intento era raccontarla rendendo testimonianza “alla città che sta scomparendo, che sta per perire”. Perché Ara Güler sapeva che quella Istanbul non ci sarebbe più stata e bisognava farla vedere.

Fotografo della vita, in ogni suo scatto c’è sempre una persona, un essere vivente, un segno di vita che abbraccia l’immortalità grazie alla sua macchina fotografica.  Egli credeva che la fotografia dovesse fornire un ricordo delle persone, delle loro vite e soprattutto delle loro sofferenze. Se l’arte mente, la fotografia riflette solo la realtà. Per questo motivo divenne un  fotoreporter,  non attribuiva molto valore alla fotografia come ricerca artistica. La fotografia era per lui racconto, non arte.

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Il porto con i suoi pescatori, i ponti, gli operai e la povera gente dei vicoli e dei mercati sono i protagonisti della sua visione neorealista esposta al Museo di Roma in Trastevere  in una sezione di 45 immagini che viaggia parallelamente con una sezione riservata a 37 ritratti di personalità celebri della politica, del cinema e dell’arte dagli anni ’50 agli anni ’70. Un Winston Churchill con l’immancabile sigaro, Pablo Picasso e Chagall,  e poi tante stelle del cinema mondiale e italiano: da Sophia Loren a Gina Lollobrigida, Silvana Mangano, Antonella Lualdi, Federico Fellini, Bernardo Bertolucci.

Prima di arrivare a Roma l’esposizione ha fatto tappa alla Galleria Saatchi a Londra, alla Galleria Polka a Parigi, al Tempio di Tofukuji a Kyoto, nell’ambito del vertice del G-20, e alla Alexander Hamilton Custom House a New York in concomitanza con l’Assemblea Generale dell’ONU, prima di continuare il suo percorso a Mogadiscio.

http://www.museodiromaintrastevere.it/it/mostra-evento/ara-g-ler

 

Nunzia Castravelli

 

 

 

VIAGGIO NEL CINEMA ITALIANO

La storia del cinema italiano è costellata di grandissimi successi dove pellicole, registi e attori sono entrati nell’olimpo mondiale della cosidetta settima arte. Pensiamo ad esempio al periodo del suo massimo splendore sorto dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale con il Neorealismo.  Anni in  cui si affermano registi del calibro di Rossellini, De Sica, Visconti e De Santis, molti dei quali premiati con l’Oscar: Roma città aperta, Paisà, Ladri di biciclette, Sciuscià, Ossessione e Riso amaro. Oppure al cinema d’autore del grande Federico Fellini. Autore di film come La strada, Amarcord, La dolce vita o I Clowns e vincitore di ben 4 premi Oscar.

Grazie al MIAC, Museo Italiano Audiovisivo e Cinematografico di Cinecittà è possibile rivivere tutto  questo splendore attraverso un percorso super immersivo suddiviso in 12 ambienti. 1650 m2 di successi raccontati attraverso istallazioni, video, e materiale audio. Il viaggio inizia in un foyer, dove le insegne luminose delle sale cinematografiche storiche ci introducono al secondo ambiente separato da un sipario color argento che rappresenta lo schermo.

La prima sezione è L’emozione dell’Immaginario: Frammenti di vetri della macchina da presa e proiezioni di volti di spettatori a testimonianza che i film sono lo specchio attraverso cui scoprire le proprie emozioni.

Attraversata la sala si arriva ad un corridoio di circa 30 metri. Una parete interattiva che ben racconta la storia del nostro cinema, una timeline che porta a sei sale i cui allestimenti ed istallazioni digitali e luminose create dal collettivo NONE sono arte che racconta l’arte: attori e attrici, storia, lingua, potere, musica, paesaggio e maestri.

Per finire poi in un calendoscopio: una scatola di specchi che amplifica le nostre riflessioni e la  magia del magnifico percorso appena intrapreso.

http://www.museomiac.it

 

 

Nunzia Castravelli

 

 

 

La bisbetica domata di Scaramella

Siamo in Italia alla fine degli Anni Trenta, alla soglia di un radicale cambiamento del rapporto uomo-donna,   in una pensione un uomo di potere organizza una beffa ai danni di un ubriaco facendogli credere di essere un gran signore. Con la complicità di una compagnia di artisti di varietà viene messa in scena la commedia della lotta fra l’astuto Petruccio e la bisbetica Caterina. In un  gioco di equivoci e sotterfugi la farsa che la trama shakespeariana suggerisce, assume i toni del varietà misto a kabarett tedesco, in un clima in cui la finzione sembra toccare punte di verità profonda. Oltre che esilarante rappresentazione di una guerra tra i sessi, il testo si presenta così come un occasione di riflessione sull’esperienza teatrale vissuta come specchio amplificante della vita, luogo di esplorazione dei suoi interrogativi nascosti, e si rivela metafora del rapporto fra l’artista e il potere, della reciproca fascinazione, della difficoltà di mantenere viva e libera la propria voce.

AT HOME @MAXXI

Com’è cambiato il concetto di casa e dell’abitare la casa dal dopoguerra ad oggi? Come si è evoluto lo spazio domestico nel Novecento?

Attraverso i progetti architettonici dei grandi maestri italiani del nostro tempo e delle figure emergenti dell’architettura contemporanea internazionale, il Maxxi ci offre un’esibizione che da molteplici risposte alle domande sopra esposte.

Il percorso di At Home inizia con Villa Malaparte a picco sul mare di Capri, passando  per il rifugio sulle Dolomiti dei giovani Demogo. I Collegi universitari di Urbino di Giancarlo De Carlo e il progetto Sugar Hill di David Adjaye, ad Harlem. La Casa Baldi di Paolo Portoghesi a Roma e la casa ”spaziale” di Zaha Hadid in Russia. E ancora il Bosco Verticale di Stefano Boeri a Milano e la Moryama House di Tokyo.

Risultati immagini per moriyama house

 Una sequenza di stanze, dove l’allestimento prevede un accoppiamento di due diverse testimonianze architettoniche, come la “bellezza di impatto che non cerca la mimesi” de Casa Malaparte di Adalberto Libera (1938-40)  accomunata al nuovo bivacco fratelli Fanton di studio Demogo (2016 – in cantiere). Un confronto che oltre ad accomunare, rivela allo stesso tempo un radicale cambiamento culturale nel modo con cui i due edifici si relazionano al luogo in cui si ergono, come sottolineano gli stessi curatori: il primo “innestato” saldamente sulla roccia, il secondo “appoggiato con leggerezza”.

Dopo un passaggio nella Casa Moriyama di Sanaa (2002-05) caratterizzatata dalla frammentazione di una villa con giardino in più volumi realizzando unità abitative potenzialmente autonome, la mostra si conclude significativamente con il progetto del Corviale, edificio-città che chiude la fase moderna di ricerca sull’abitazione e si offre oggi alla sperimentazione di strategie di trasformazione dei grandi edifici di edilizia residenziale pubblica attraverso i progetti di riqualificazione di Laura Peretti e Guendalina Salimei.

Tutte le info qui

 

 

Nunzia Castravelli